Quando sconvolgimenti di varia natura, legati sia alla guerra che al clima, occupano le prime pagine dei giornali, si crea un contesto favorevole all’impennata dei prezzi al consumo. L’aspetto che spesso viene trascurato è il ruolo che la speculazione finanziaria gioca nel determinare cosa pagano i consumatori. Le scelte speculative, che sfuggono al vaglio della legge e dell’opinione pubblica, sono talvolta impulsive e alimentano una sensazione di scarsità solo per aumentare i profitti. In questa conversazione, Rupert Russell, autore di Guerre dei prezzi, spiega l’ingombrante ruolo dei mercati finanziari nelle crisi attuali e perché la politica non può permettersi di lasciarli agire indisturbati.

Green European Journal: se ci diamo un’occhiata in giro, vediamo molte cause di scarsità nel mondo: guerre e sanzioni, deficit energetico, ondate di calore che rovinano i raccolti… questa scarsità è alla base dell’attuale crisi del costo della vita?

Rupert Russell: Amartya Sen in una celebre frase dice che tutte le carestie sono causate dall’uomo. Nel corso della storia, osserva, alcune carestie, responsabili della morte di un numero impressionante di persone, sono state causate da un’effettiva mancanza di cibo. Ma spiega anche che, dalla nascita dei mercati moderni e dell’economia globale, le carestie circoscritte in determinate zone del pianeta non sono più un problema così rilevante perché quasi tutto il mondo, a eccezione di alcune regioni isolate, è collegato ai mercati globali.

Faremmo bene a ricordarci dell’analisi di Sen quando i titoli dei giornali parlano di scarsità di certi beni e della crisi del costo della vita. Nel Mississippi, fra il 2017 e il 2019, il 15 per cento della popolazione ha sofferto di insicurezza alimentare, cioè non sempre riusciva a garantirsi un pasto adeguato. Questa situazione era determinata da una penuria di cibo in senso assoluto? La risposta è no. I prezzi sono il prisma fondamentale attraverso cui dobbiamo guardare la moderna povertà. Il motivo della povertà alimentare ed energetica è semplicemente che la gente non può permettersi ciò di cui ha bisogno.

Ma la guerra in Ucraina di certo ha molto a che fare con la crisi del costo della vita.

Cibo e petrolio sono beni globali più o meno intercambiabili. Ce n’è in abbondanza e si vendono in tutto il mondo a prescindere dalla guerra. Leggiamo sui giornali della guerra, del grano bloccato nei silos, della Russia e dell’Ucraina che insieme rappresentano un quarto delle esportazioni mondiali di grano e allora pensiamo che i forti rincari dei prodotti alimentari abbiano un fondamento razionale. Tuttavia, il prezzo di questi beni scambiati sui mercati internazionali è sceso significativamente nel giugno del 2022. Cos’è successo all’offerta e alla domanda? C’è stato un cessate il fuoco in Ucraina? È stato imposto un embargo? No: la Federal Reserve ha annunciato un aumento dello 0,75 per cento dei tassi di interesse e ogni asset finanziario, da Meta, alle criptovalute, alle materie prime, ha subito un calo vertiginoso dei prezzi.

La storia della scarsità seguita alla guerra in Ucraina è gonfiata e slegata dalla realtà dei mercati: questi non sono mercati fisici, sono mercati finanziarizzati. I prezzi degli asset finanziari sono stabiliti dagli speculatori, e nulla come la Federal Reserve è capace di spostare le narrazioni. La questione del gas è più complessa perché il gas è una materia prima difficile da trasportare, da qui l’importanza dei gasdotti, e il motivo per cui la Russia ha potuto fare giochetti con l’Europa sin dagli anni Sessanta. Ecco spiegato anche perché il danneggiamento dei gasdotti Nord Stream è un fatto così grave. Ciò detto, ci stiamo rapidamente muovendo verso un mercato globale del gas naturale liquefatto, che va di pari passo con la costruzione di nuove infrastrutture dedicate.

Ciò che dobbiamo ricordare è che i mercati sono istituzioni sociali, e sono le loro disfunzioni – che sia Putin a usare il gas come arma o le dinamiche dei mercati finanziari – a generare la sensazione di scarsità. Assistiamo a incredibili fallimenti da parte delle istituzioni che abbiamo costruito nella distribuzione di beni nel mondo. Il che coincide con la diagnosi fatta da Amartya Sen per le carestie o con quella che in Occidente chiamiamo “crisi del costo della vita”, e che rischia davvero di portare molte persone a morire di fame.

I prezzi sono il prisma fondamentale attraverso cui dobbiamo guardare la moderna povertà.

Sebbene gli speculatori finanziari aggravino la crisi del costo della vita, è anche il cambiamento climatico a contribuire alla scarsità di cibo, risorse e acqua?

Non posso pronunciarmi sul futuro della produzione alimentare, ma si è sempre parlato di scarsità. Negli anni Venti e Settanta del Novecento, per esempio: è una moda che va e viene. Questi discorsi giocano molto anche sull’idea che il mondo è sovrappopolato e che presto dovremo cominciare a mangiarci l’un l’altro. Fra il 2014 e il 2021 i prezzi dei beni alimentari sono stati molto bassi. Ora la gente sente parlare di un’ondata di siccità in India o di un incendio in California e pensa che è per questo che i prezzi salgono. C’è stato un aumento della siccità e degli incendi che giustifichi espressamente la triplicazione dei prezzi? Io dico di no.

Il modo in cui abbiamo costruito il moderno mercato delle materie prime fa sì che ogni calo percepito della produzione possa acuirsi fino a diventare uno choc o una crisi globale. Otteniamo un numero sempre maggiore di dati, sia direttamente dai produttori sia dalle aziende che trattano dati satellitari. Questi dati confluiscono negli algoritmi, che amplificano gli effetti di cui sopra. Una critica avanzata contro il movimento ambientalista è che alimenta la narrazione della scarsità, che a sua volta contribuisce alla volatilità artificiale sui mercati.

Come funziona il trading algoritmico?

Il trading algoritmico può assumere le forme più disparate. Esistono molti algoritmi che seguono i trend, che li cercano e ci scommettono sopra. Se c’è un fatto giornalisticamente rilevante, una guerra, un gasdotto esploso, eccetera, un bot lo legge e lo sfrutta secondo la logica “meglio arrivare primi che essere nel giusto”. La conseguenza è che si verifica una grande volatilità infra-giornaliera. A causa della guerra in Ucraina abbiamo assistito a oscillazioni di 30 dollari nel prezzo del petrolio, in singoli giorni. Un giorno compare un titolo sugli embarghi alla Russia e bum, impennata dei prezzi. Il giorno dopo, altro titolo: la Russia venderà il suo petrolio all’India e allora via, si vende.

L’assurdo è che non abbiamo idea di cosa siano queste strategie speculative. Gli hedge fund, che operano in questo modo – esempio emblematico è la Renaissance Technologies – sono molto riservati. Il prezzo del cibo e dei carburanti è così importante per la nostra vita, la nostra sicurezza, per l’economia, per la stabilità politica, eppure ci rendiamo conto che viene deciso a scatola chiusa. Viviamo in un mondo in cui i processi decisionali che determinano se possiamo mangiare e riscaldare casa nostra sono avvolti da una totale segretezza, che è sia normalizzata sia protetta dalla legge. È un segno della follia del sistema di mercato che governa il mondo.

Le proteste che scoppiano in coincidenza di un’impennata dei prezzi non sono per forza risposte automatiche alla fame, ma piuttosto al fallimento di un governo incapace di fare il suo lavoro.

Lei ha viaggiato in Nord Africa e in Medio Oriente durante la Primavera araba. Nel 2022 abbiamo assistito a grosse proteste dallo Sri Lanka, all’Iran al Cile. Perché l’aumento dei prezzi ha un effetto così incendiario?

Il legame fra instabilità politica e alti prezzi dei beni essenziali è antichissimo. Ai tempi dei Romani, gli imperatori offrivano al popolo panem et circenses per farlo contento. Famosa la frase attribuita a Maria Antonietta durante la Rivoluzione francese: “Se non hanno pane, che mangino brioches”. Questi antichi paragoni sono riemersi in maniera molto vivida durante la crisi alimentare globale post-2008, che è stata una delle cause scatenanti della Primavera araba. Dal 2021 ci sono state proteste simili in almeno 50 Paesi fra cui India, Indonesia, Iran e Tunisia.

Tutti i sistemi di governo – monarchie, dittature, democrazie – si fondano su un accordo implicito fra governante e governati in base al quale la vita deve essere vivibile. Lo storico Steven Kaplan ha riportato che fu Carlo Magno a sancire il principio per cui lo Stato è il garante del prezzo del pane in Europa, e a definire il re come “fornaio di ultima istanza”. Principio che vale tutt’ora.

Le proteste che scoppiano in coincidenza di un’impennata dei prezzi non sono per forza risposte automatiche alla fame, ma piuttosto al fallimento di un governo incapace di fare il suo lavoro, con l’aumento dei prezzi come risultato. In un certo senso, la crisi del costo della vita in Europa è partito dalle proteste dei gilet gialli in Francia fra il 2018 e il 2020: in quel caso la scintilla è stata l’introduzione di una serie di tasse sul prezzo della benzina. Lo stesso è accaduto in America. Il prezzo della benzina può diventare una calamita per proteste e instabilità. Con il neoliberismo, anche i prezzi delle case possono essere parte integrante del contratto sociale. La casa è diventata più di un semplice posto dove vivere: è una forma di protezione finanziaria che sostituisce la rete della sicurezza sociale, ormai erosa. Nel quadro dell’attuale crisi, dobbiamo smettere di pensare ai diversi beni come a mercati distinti che rispecchiano ciò che succede nel mondo reale, e capire che fanno tutti parte dello stesso castello di carte finanziario.

I governi europei stanno calmierando i prezzi delle bollette energetiche per contenere la crisi del costo della vita. Nel frattempo, le banche centrali stanno alzando i tassi di interesse per tenere a freno l’inflazione. Cosa pensa di queste risposte?

Politici e banche centrali si sono ritrovati all’angolo. La guerra in Ucraina ha trasformato quella che sembrava un’inflazione transitoria generata dalla pandemia e dalla crisi della catena di approvvigionamento in qualcosa di più duraturo. Le banche centrali, perciò, si sono viste costrette a rispondere con un aumento dei tassi di interesse.

Da un lato i politici, che fino al 2021 quasi ridevano all’idea di un calmieramento dei prezzi, sono ora obbligati a imporlo perché cittadini e aziende non riescono a pagare le bollette. La domanda è: chi paga? E chi ci guadagna? Banche centrali e politici sostengono che questa crisi è del tutto razionale e rispecchia la realtà sottostante. Ne consegue un enorme trasferimento di denaro pubblico ai produttori di materie prime – tutto per colpa dell’aumento dei prezzi che sono stati massicciamente gonfiati dalla reazione incontrollata degli speculatori alla guerra in Ucraina.

Dall’altro lato, è vero che se si alzano abbastanza i tassi di interesse, l’inflazione si abbassa. Tuttavia, quando Paul Volcker, da Presidente della Fed, lo fece nei primi anni Ottanta, non solo portò gli Stati Uniti in recessione, ma innescò anche una crisi del debito nei Paesi in via di sviluppo che andò avanti per decenni. Il costo umano di questa strategia fu enorme, e l’effetto contagio dal Nord globale al Sud globale moltiplicò esponenzialmente sofferenze e disastri.

Dobbiamo chiederci se non esiste un altro modo per affrontare il problema. Un intervento sui prezzi è di sicuro un rimedio a breve termine. Finora hanno preferito sborsare soldi, anche se una regolamentazione potrebbe essere altrettanto efficace. Basta pensare a quanta energia rinnovabile un simile investimento potrebbe creare nell’arco dei prossimi due o tre anni. Negli Stati Uniti – e credo sia un passo nella direzione giusta – si sta verificando uno spostamento verso un “progressismo lato approvvigionamento”. L’idea alla base è migliorare l’efficienza, aumentare la produttività e accelerare il più possibile il processo di decarbonizzazione.

Quindi il ruolo dello Stato dovrà crescere per far fronte alla minor disponibilità di beni e materie prime?

È questione di buon senso. In Francia il maggior produttore di energia del Paese è stato nazionalizzato solo perché non c’era altra scelta. I governi si sono ritrovati all’angolo perché, per oltre quarant’anni, abbiamo vissuto dipendendo dai mercati. Il sistema funzionava, ma era incredibilmente fragile e contraddistinto da interdipendenze di ogni tipo. La metafora della fragilità vale per molte cose, dal sistema finanziario alle catene di approvvigionamento. La dipendenza europea dal gas russo a buon mercato era una delle fragilità principali. Nel 2012, l’allora Primo ministro polacco Donald Tusk aveva avvertito l’Europa che non era un bene affidarsi alla Russia per l’approvvigionamento energetico.

In oltre quarant’anni di neoliberismo gli ammortizzatori sono stati oltremodo depotenziati. Adesso veniamo sballottati da una crisi all’altra. Dobbiamo cominciare a scardinare questa fragilità.

Dopo la crisi del 2008 si è discusso di una riforma del sistema finanziario. Ma poi, quando c’è stata la ripresa economica, molti di questi discorsi sono caduti nel vuoto. La crisi del costo della vita riporta a galla queste questioni economiche?

In Guerre dei prezzi mi guardo bene dal formulare affermazioni troppo politiche. L’unico messaggio di cui volevo farmi portavoce è che viviamo in un mondo di prezzi, ma non lo vogliamo ammettere. I prezzi costituiscono la struttura di limitazioni e opportunità in cui viviamo tutti – da Biden a Putin a Mark Zuckerberg – e rendono possibili e limitano tutti i nostri processi decisionali e la nostra capacità di azione. Questi numeri governano il mondo.

Il punto d’arrivo è lo scopo stesso del neoliberismo: un progetto antidemocratico che ritiene i mercati sistemi di voto più efficienti delle democrazie, con i loro interessi particolari e i sindacati. Adesso viviamo in questo mondo, ma rafforzare i prezzi è stata una decisione politica, mentre i prezzi, al contrario, limitano la politica. Quello che ci serve è una visione politica che provi ad andare oltre, ed è quello che secondo me stanno facendo alcuni nel movimento ambientalista quando parlano di decrescita e demercificazione.

Per le forze progressiste, recessioni e periodi di inflazione sono una grossa sfida perché sono spesso seguiti da austerità e crescita della xenofobia. Che narrazione dovrebbero usare Verdi e progressisti per spiegare l’attuale periodo di insicurezza?

Nel 2020, nei primi giorni della pandemia, si è respirato per un attimo un sentimento che ci portava a dire: “Questo ci riguarda tutti”, che nasce quando lo Stato interviene in una grave crisi ed è supportato da uno spirito di azione collettiva. Credo che fosse sincero. Non è stata finzione. Le persone ci tengono.

Non dobbiamo trattare le persone come consumatori atomizzati. Lo capiscono che ricevere 400 euro per pagare bollette della luce che sono salite di cinque volte tanto non è un vero aiuto. I budget familiari parleranno da soli. Il contratto atomistico neoliberista non è più plausibile quando il tuo salario non basta più per tutte le spese che devi sostenere.

I Verdi e i partiti di centro-sinistra in senso ampio devono fornire una risposta che si basi su sentimenti di patriottismo, comunità e collettivismo. Una risposta collettiva a problemi individuali. È il ribaltamento dell’idea neoliberista secondo la quale per ogni problema sistemico serve una soluzione individuale. Siamo nel momento migliore per sfatare questo paradigma.

Traduzione Laura Bortoluzzi – Voxeurop

Tradotto in collaborazione con la Heinrich Böll Stiftung Parigi, Francia