L’invasione dell’Ucraina ha rimodellato la politica europea nell’arco di pochi giorni. L’Unione ha imposto alla Russia una serie di sanzioni finanziarie senza precedenti, eppure il commercio di petrolio e gas non si ferma. Le sanzioni energetiche saranno il prossimo passo? Se sarà così, assisteremo al ritorno del carbone e del nucleare? In un momento in cui la Russia avanza e gli Stati Uniti si fanno notare per la loro assenza, ci saranno progressi concreti verso la creazione di un esercito europeo? Discutiamo questi temi cruciali per l’Unione con l’economista Shahin Vallée.

Green European Journal: Le sanzioni annunciate dall’Unione europea e dagli Stati Uniti sono probabilmente le più significative mai imposte a un paese economicamente forte come la Russia. Lei le ha definite potenzialmente rivoluzionarie. Eppure non si applicano all’energia e la Russia continua a guadagnare centinaia di milioni di dollari al giorno grazie alle vendite di petrolio e gas. In che senso ritiene che le sanzioni siano rivoluzionarie? Quale impatto avranno sulla capacità della Russia di portare avanti la sua guerra?

Shahin Vallée: Le sanzioni sono arrivate in tre diverse ondate. La prima ha colpito le persone e le aziende, con provvedimenti molto simili a quelli presi nel 2014-2015, quando la Russia ha invaso la Crimea. Subito dopo, le sanzioni hanno agito escludendo le banche russe dal sistema di comunicazione elettronica SWIFT, che facilita i trasferimenti tra gli istituti di credito. L’obiettivo è quello di isolare la Russia dal sistema finanziario internazionale, ma le sanzioni sullo SWIFT non hanno riguardato i pagamenti legati all’energia e ad altri settori. Dal punto di vista politico è una mossa molto simbolica, ma fino a quando le sanzioni sullo SWIFT resteranno limitate saranno anche inutili. L’unica decisione che avrebbe un impatto concreto sulla Russia sarebbe quella di escludere interamente il suo sistema bancario dai pagamenti internazionali. Escluderne soltanto una parte, ovvero quello che hanno fatto sia l’Europa che gli Stati Uniti, è altamente inefficace. 

La terza ondata di sanzioni è arrivata immediatamente dopo quelle sullo SWIFT. Le ultime sanzioni hanno preso di mira la Banca centrale russa, congelandone gli asset e impedendole di utilizzare buona parte delle riserve che conservava all’estero. Le riserve di valuta estera permettono alla Russia di resistere alla pressione economica creata dalle sanzioni commerciali, per esempio garantendo a Mosca di poter effettuare i pagamenti internazionali e continuare a importare prodotti ripagando il debito in valuta estera. Prima dell’invasione il patrimonio della Russia ammontava a circa 630 miliardi di dollari americani. Le sanzioni lo hanno ridotto di due terzi. 

Questa terza ondata di sanzioni ha intaccato la capacità della Russia di resistere alla pressione economica a lungo termine. Eppure, oltre le riserve di contante c’è anche un flusso di denaro che scorre nelle casse di Mosca. L’Europa, infatti, continua a importare dalla Russia oltre 500 milioni di euro di petrolio e gas ogni giorno. Anche se alla Russia è negato l’accesso alle sue riserve di valuta estera, Mosca riceve comunque 30 miliardi di euro ogni trimestre in valuta estera da queste vendite, valore che si rivela anche maggiore considerando il probabile aumento dei prezzi. Questo flusso garantisce alla Russia una risorsa importante per continuare a finanziarie la propria macchina bellica e sostenere la propria economica. 

Quali scelte politiche dovrebbe fare l’Europa se davvero volesse compromettere la capacità della Russia di portare avanti la guerra?

Nei prossimi giorni e nelle prossime settimane la possibilità di sanzionare il gas e il petrolio diventerà un tema cruciale in Europa. Se l’Europa vuole opporsi unita all’aggressione russa deve ridurre le importazioni di petrolio e gas. Per alcuni paesi questo comporterebbe un taglio delle importazioni di energia fino al 50 per cento. Sarebbe qualcosa di inedito, ed è per questo che gli europei non hanno ancora seguito questa strada. Ma se davvero vogliamo aiutare l’Ucraina, questa scelta è inevitabile. 

Se non possiamo cambiare radicalmente il nostro consumo energetico in tempi di guerra, dubito fortemente che riusciremo a farlo per salvare il clima. 

Le sanzioni sull’energia sollevano una lunga serie di interrogativi di natura filosofica ed ecologica. Come possiamo passare rapidamente dal petrolio e dal gas ad altre fonti di energia? La Germania dovrà ripristinare, almeno temporaneamente, l’attività delle centrali nucleari che la coalizione al governo aveva in programma di chiudere? Dovremo ricorrere anche al carbone come alternativa?

Il dilemma energetico è il motivo per cui i Verdi mantengono un atteggiamento ambivalente, soprattutto a causa del loro impegno ad abbandonare del tutto l’energia nucleare in Germania. Allo stesso tempo è impossibile smettere di utilizzare il gas naturale e il petrolio provenienti dalla Russia senza tenere attive le centrali nucleari in Germania e bruciare più carbone in Europa, compiendo inevitabilmente un passo indietro rispetto agli impegni presi per la riduzione delle emissioni. I Verdi devono fare i conti con questa realtà. 

Dunque ridurre il flusso di energia è fondamentale. Oltre a infrangere alcuni tabù sull’energia nucleare, dobbiamo prepararci a un razionamento energetico?

È inevitabile. Se vogliamo liberarci in tempi brevi del petrolio e del gas provenienti dalla Russia non esiste alternativa al razionamento, sia per le aziende che per gli individui. Questo significherà abbassare la temperatura dei riscaldamenti e l’intensità dei sistemi di ventilazione, fare la doccia con acqua più fredda e ridurre la produzione di beni ad alto consumo energetico. È un cambiamento radicale. Non sarà un processo rapido, ma possiamo farcela. Anche se tendiamo a dimenticarlo, in seguito all’incidente di Fukushima il Giappone ha chiuso immediatamente le sue centrali nucleari (che producevano l’80 per cento dell’energia elettrica) passando al gas naturale. L’Europa, ora, deve compiere il procedimento inverso. 

La massiccia riduzione del consumo energico che sarà necessaria per sostenere l’Ucraina sarà anche indispensabile per raggiungere gli obiettivi fissati in merito alle emissioni. In un certo senso si tratta di un test. Se non possiamo cambiare radicalmente il nostro consumo energetico in tempi di guerra, dubito fortemente che riusciremo a farlo per salvare il clima. 

È dunque arrivato il momento di rafforzare il Green Deal europeo per costruire un’Europa più autonoma, parzialmente re-industrializzata e verde? L’evoluzione geopolitica potrebbe accelerare la transizione verde in Europa?

Tutte le crisi geopolitiche internazionali – la guerra commerciale di Donald Trump contro la Cina che ha colpito anche l’Europa, la pandemia che ha evidenziato la debolezza relativa delle nostre catene di distribuzione e l’attuale conflitto alle porte del vecchio continente – ci ricordano la fondamentale interdipendenza delle nostre economie e riaprono il dibattito sulla sostenibilità di questo livello di dipendenza. Oggi esiste una tendenza a rinazionalizzare o comunque a riconsiderare la catena di distribuzione, e la transizione verde aggiunge ulteriore inerzia a questa spinta. 

In piena guerra, l’Ucraina ha invitato l’Unione europea a concederle l’adesione con effetto immediato, seguita immediatamente da Georgia e Moldavia. Come valuta questo appello? Esiste il rischio di inasprire ulteriormente l’atteggiamento della Russia? 

L’aspetto incoraggiante di queste richieste è che non riguardano la Nato, oltre all’Unione europea. Penso che nelle circostanze attuali una richiesta di entrare nella Nato e un’eventuale risposta positiva non farebbero altro che peggiorare la situazione. Al contrario, la richiesta di entrare nell’Unione europea è più politica e ha meno implicazioni militari. Dunque è più comprensibile e accettabile. 

La vicenda, in ogni caso, solleva alcuni interrogativi fondamentali per l’Unione europea. È il momento giusto per aprire una via d’accesso all’Ucraina e ad altri paesi? Che tipo di Europa stiamo creando se continuiamo a espanderla senza renderla più efficace? Il problema era già stato posto dal potenziale allargamento dell’Unione per includere i Balcani occidentali. Se continuiamo a spostare i confini dell’Europa e aggiungere stati con diritto di veto in una struttura di governo già appesantita dall’eccessivo potere di ostruzionismo, non stiamo forse minando la capacità dell’Europa di agire nel mondo?

È il momento giusto per aprire una via d’accesso all’Ucraina e ad altri paesi? Che tipo di Europa stiamo creando se continuiamo a espanderla senza renderla più efficace?

La mia idea è che l’Unione europea dovrebbe rispondere favorevolmente alla richiesta dell’Ucraina, ma dovremmo anche avviare un dibattito serio su come accogliere i nuovi stati e al contempo rafforzare e sviluppare in profondità l’attuale Unione. Questo potrebbe significare progredire verso un’Unione europea con diversi strati di integrazione politica e rivedere i trattati europei accettando la possibilità di modificarli. Se l’ingresso dell’Ucraina e di altri paesi comporterà l’apertura di un dibattito sulla riforma delle istituzioni europee e della democrazia europea allora sono assolutamente favorevole. Se invece sarà una decisione presa in fretta e furia che finirà per cancellare qualsiasi conversazione su un’eventuale riforma istituzionale, ne sarei estremamente preoccupato.

Dalla riunificazione fino all’epoca di Angela Merkel, la spesa militare della Germania è rimasta molto bassa. Nei giorni successivi all’invasione, invece, il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato un aumento del budget destinato alla difesa. Nel frattempo molti paesi dell’Unione stanno inviando piccole armi e missili anti-carro all’Ucraina, con le istituzioni europee che stanno già fornendo aiuti economici. L’invasione segnerà un cambiamento permanente nella politica di difesa europea? 

Sì, penso che si tratti di un cambiamento strutturale. La decisione della Germania è assolutamente radicale e importante. Per decenni la pressione su Berlino affinché incrementasse la sua spesa per la difesa è cresciuta costantemente, sia da parte degli Stati Uniti, insoddisfatti perché la Germania non rispettava i suoi impegni economici nel quadro della Nato, sia da parte degli altri paesi europei. La Francia, soprattutto sotto la guida di Emmanuel Macron, era preoccupata che la Germania non fosse interessata a costruire un sistema di difesa europeo e stesse favorendo una situazione di dipendenza da parte dell’Europa. 

La svolta recente potrebbe aprire la strada all’integrazione della difesa europea. Negli ultimi cinque anni Macron si è impegnato molto nella costruzione dell’autonomia strategica e della sovranità dell’Europa. Ora finalmente può contare su un po’ di partecipazione da parte della Germania dopo anni di riluttanza. È interessante notare che questo sviluppo avviene mentre a Berlino governa una coalizione di cui fanno parte i socialdemocratici e i Verdi, due partiti che in linea di principio dovrebbero essere contrari all’aumento della spesa per gli armamenti e la difesa. In realtà è probabile che questa potesse essere l’unica coalizione di questo tipo a compiere questo passo. 

Ma la vera domanda a cui manca ancora una risposta (che probabilmente non conosceremo in tempi brevi) è se la Germania voglia procedere verso la costruzione di una difesa europea o invece verso un rafforzamento della struttura della Nato. Tendo a pensare che Berlino voglia procedere più in direzione dell’Europa che in direzione della Nato. In questo caso si tratterebbe di un altro cambiamento enorme. 

Considerando queste due direzioni, non è invece più probabile che le potenze militari europee come Francia, Polonia, Germania e Regno Unito vadano ad assumere un ruolo più rilevante all’interno della Nato?

A questo punto entrambe le opzioni sono valide. Quella della difesa europea è sicuramente percorribile. L’Unione sta mobilitando lo Strumento europeo per la pace per fornire 500 milioni di euro in armi all’Ucraina. Potrebbe essere un passo decisivo in direzione di un’architettura comune della difesa europea, ma non è detto che sia così. D’altro canto i rapporti storici tra la Germania e gli Stati Uniti, uniti alla riluttanza dei paesi dell’Europa centrale e orientale a impegnarsi nel raggiungere questi obiettivi comuni europei, rendono più probabile un rafforzamento della struttura della Nato. 

Detto questo, esiste un aspetto cruciale in favore della difesa europea: Washington è stata sorprendentemente assente durante la crisi ucraina. Nessuno in Europa, e soprattutto nell’Europa orientale, pensa che l’impegno degli Stati Uniti sia lo stesso di un tempo. Joe Biden ha citato a malapena l’Ucraina durante il suo discorso sullo stato dell’Unione, mentre 10 o 15 anni fa questa guerra sarebbe sicuramente stata al centro della politica americana e gli Stati Uniti avrebbero dominato le trattative diplomatiche. L’uscita degli Stati Uniti dalla scena internazionale è in atto fin dall’elezione di Barack Obama, e in Europa è palese per chiunque abbia occhi per osservare la situazione. Persino gli entusiasti della Nato stanno cominciando a rendersene conto.

Nessuno in Europa, e soprattutto nell’Europa orientale, pensa che l’impegno degli Stati Uniti sia lo stesso di un tempo.

I Verdi tedeschi fanno parte di un governo che sta incrementando la spesa per la difesa. Il candidato dei Verdi alle presidenziali francesi Yannick Jadot è favorevole all’invio di armi in Ucraina. È un cambiamento significativo, perché la tradizionale posizione dei Verdi è quella secondo cui le armi non portano pace e la politica di sicurezza dovrebbe essere basata sulla diplomazia e la lotta alle radici dei conflitti. Dovremmo preoccuparci davanti a questa improvvisa militarizzazione dell’Unione europea? Oppure è una conseguenza inevitabile dell’aggressione russa?

Sono un pacifista, ma la notizia dell’aggressione russa ci ha messi davanti al fatto che pur essendo pacifisti dobbiamo poter rispondere alla forza con la forza, se necessario. Al contempo, però, dobbiamo evitare la militarizzazione di qualsiasi politica estera, perché è stata spesso fallimentare. Il coinvolgimento della Francia in Mali e nel Sahel è un buon esempio. Ma ci sono anche momenti in cui l’azione militare è necessaria, e l’Europa dev’essere pronta per queste circostanze. 

Spero che un’eventuale difesa comune europea, con una gestione adeguata, possa limitare l’uso della forza a un numero estremamente ridotto di casi, anche perché, in tal caso, per azionare la macchina militare servirebbe il consenso di una maggioranza di Stati e non soltanto la volontà di un leader, come accade nei sistemi presidenziali come quello francese. Una difesa europea potrebbe comprendere un sistema di controlli e contrappesi in merito all’uso della forza. L’utilizzo arbitrario della forza è preoccupante, ma quello legittimo e democratico dovrebbe essere qualcosa con cui i Verdi possono convivere. 

Tornando alla tragedia in corso in Ucraina, potrebbero servire anni prima di arrivare a una vittoria militare di Kiev o al crollo del regime di Putin. Riesce a intravedere un percorso diplomatico per ottenere a breve termine un cessate il fuoco e l’inizio di un processo di pace?

Sì. Molte persone prendono in giro i tentativi diplomatici di Macron, che ha visitato Mosca e continua a parlare con Vladimir Putin. Ma nonostante l’aggressione e una guerra che con ogni probabilità durerà nel tempo, dobbiamo continuare a cercare una soluzione diplomatica, nella speranza di trovarla. Come tutte le soluzioni diplomatiche sarà probabilmente insoddisfacente, ma ritengo che tre elementi potrebbero contribuire a crearla. 

Prima di tutto i confini della Nato. È difficile immaginare uno scenario in cui un ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica possa portare a un rapporto stabile con la Russia. Sono rimasto piuttosto sorpreso dal fatto che il presidente ucraino Zelensky abbia dichiarato di essere pronto a discutere il tema della neutralità del suo paese. Ora, la neutralità può significare tutto e niente, ma il fatto che non sia un tabù è già confortante. Zelensky ha dichiarato apertamente di non considerare più l’ingresso nella Nato come un diritto sacrosanto del suo paese. 

Il secondo aspetto cruciale per il negoziato è la federazione dell’Ucraina con il riconoscimento dell’esistenza delle identità regionali e la garanzia del rispetto e della protezione delle minoranze. In realtà lo stato ucraino offre già da anni queste garanzie, ma se la Russia ritiene che le minoranze non siano protette dal sistema attuale, allora si potrebbe procedere offrendo nuove garanzie attraverso un sistema federale. Gli ucraini hanno respinto con decisione questa possibilità perché considerano il federalismo come uno strumento con cui la Russia potrebbe ottenere un diritto di veto attraverso le regioni che controlla. Capisco che in quest’ottica sarebbe una concessione improponibile. Tuttavia nessun Land tedesco ha diritto di veto nell’ambito della Germania federale, dunque non vedo come, nel contesto dell’Ucraina, il Donbass o un’altra regione dovrebbero averne uno. Le autonomie regionali dovrebbero semplicemente avere la possibilità di sedere al tavolo delle decisioni. 

Il terzo elemento riguarda il confine ucraino. La Crimea è stata annessa de facto alla Federazione Russa dal 2014. Questa annessione non è stata riconosciuta dall’Unione europea né dalle Nazioni Unite né da nessun altro. I russi ritengono che la Crimea gli appartenga. Per l’Unione europea è difficile cedere e creare un precedente di modifica dei confini nazionali. Eppure una soluzione diplomatica dovrà affrontare necessariamente il tema dei confini dell’Ucraina. Non possiamo vivere all’infinito in questa ambiguità in cui non riconosciamo l’annessione della Crimea ma allo stesso tempo la accettiamo.