I sistemi di istruzione pubblica sono ampie istituzioni che lavorano su un orizzonte temporale molto più lungo del ciclo politico medio. Per la scarsità dei fondi pubblici e la limitata attenzione politica, il ruolo chiave dell’istruzione nel garantire benessere, giustizia sociale e sostenibilità viene spesso trascurato. Abbiamo parlato con Lorenzo Fioramonti, ex ministro italiano dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, delle sfide della riforma dei sistemi educativi e del perché l’ecologia dovrebbe essere al centro dell’istruzione nel 21° secolo.

Green European Journal: Nel 2019, l’Italia ha fatto notizia in tutto il mondo per aver introdotto il cambiamento climatico nel suo curriculum scolastico. Lei era il ministro dell’istruzione all’epoca. Può spiegare di più? In che misura è stato introdotto in pratica?

Lorenzo Fioramonti: Nel 2018, quando andai al governo e mi chiesero di reintrodurre a scuola l’educazione civica – ormai sospesa da una quindicina d’anni -, proposi che diventasse un’educazione alla sostenibilità. Sono sempre stato convinto della necessità di insegnare la sostenibilità all’interno del curriculum scolastico, ma credevo anche in un insegnamento pratico della materia, non passivo e nozionistico. Così nel 2019 l’educazione alla sostenibilità divenne un’ora a settimana in cui gli studenti realizzassero progetti di cittadinanza sostenibile, di attivismo sul territorio e di economia circolare: dal bilancio energetico della scuola, alla comprensione dell’intersezione tra dinamiche sociali e degrado del territorio.

Cambiare il curriculum scolastico è un’operazione molto complessa, così mi accontentai di cominciare con quell’ora alla settimana. Ma in seguito alle mie dimissioni da ministro, l’iniziativa non fu portata avanti con altrettanto entusiasmo. Nonostante nelle scuole sia stata introdotta l’ora di educazione alla sostenibilità, in mancanza della leadership del ministero, dell’applicazione di linee guida dettagliate e di corsi di formazione per gli insegnanti, molte scuole oggi fanno quello che possono. È un po’ il dilemma del nostro Paese: i governi cambiano ogni anno e c’è questa cultura molto italiana secondo cui chi viene dopo deve disfare le cose di chi c’è stato prima. Senza continuità e leadership, raramente si riesce a raggiungere un cambiamento. 

Poco dopo, ha rassegnato le dimissioni dal suo incarico quando il governo ha negato all’istruzione e alla ricerca i finanziamenti che riteneva necessari. Può parlarci della sua decisione?

Nel nostro manifesto elettorale, avevamo un programma molto serio e innovativo su scuola e università che partiva proprio dall’idea di reinvestire tutto ciò che era stato tagliato nel corso del ventennio precedente. Poco dopo, molte promesse erano state già disattese. In quanto professore universitario prestato alla politica come servizio, mi sono trovato a fare il ministro di una scuola che amo senza avere neanche il minimo strumento per realizzare ciò che avevo promesso.

Dapprima in privato e pubblicamente poi, ho sottolineato come il nostro programma elettorale non stesse ottenendo l’attenzione necessaria, sperando che l’allora capo del governo rivalutasse la situazione. Questo però non è avvenuto e quindi mi sono dimesso, anche per coerenza con me stesso.

Nella politica di oggi l’istruzione e la ricerca sono considerati dei temi di secondo piano, tanto che i politici che vogliono far carriera si guardano bene dal fare i ministri dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Eppure, il capitale umano è l’energia di un Paese, e si forma a scuola: il ministro dell’Istruzione e della ricerca è il Ministero del futuro, dove si costruisce il Paese che verrà.

Negli ultimi anni, la pandemia ha scosso i sistemi educativi di tutto il mondo. Qual è stato l’impatto della pandemia sull’istruzione pubblica in Italia? C’è qualche “eredità” positiva che l’epoca pandemica ha lasciato sulla scuola?

Credo che sia andato tutto piuttosto male. Nonostante i buoni risultati ottenuti da alcune scuole, ci sono stati troppi casi di dispersione scolastica e di alienazione. È evidente che la pandemia ha colpito duramente una generazione, lasciando danni psicologici non indifferenti. Possiamo però imparare dai nostri errori.

Innanzitutto, abbiamo scoperto che sappiamo fare lezione solo nel modo tradizionale e che utilizziamo le tecnologie come fossero un surrogato, un sostituto della lezione frontale; ma per essere efficienti, le tecnologie hanno bisogno di un adattamento nel modello di insegnamento, che oggi manca.

Poi abbiamo capito quanto sia di difficile gestione un sistema scolastico fatto di grandi istituti riempiti di studenti, quelli che chiamo ‘i centri commerciali dell’istruzione’. La tendenza degli ultimi decenni è stata proprio quella di chiudere le piccole scuole e concentrare masse di studenti in istituti comprensivi extralarge che non funzionano, soprattutto dal punto di vista didattico.

Spero che la pandemia ci abbia fatto capire quanto sia importante tornare ad avere delle scuole di quartiere, di borgo, di paese: una rete di piccole scuole più gestibili e connesse tra loro, dove fare insegnamento innovativo, lavoro sul territorio e magari anche qualche lezione in comune.

Quando era ministro, ha espresso il desiderio di mettere il clima e l’ambiente al centro dell’istruzione e della ricerca pubblica italiana. Pensa che l’ecologia e la necessaria transizione verde possano fornire un orientamento per l’istruzione e la ricerca?

Non c’è alternativa al fare dell’ecologia e della sostenibilità la bussola del sistema educativo e della ricerca. Da sempre nella storia dell’umanità le grandi sfide sono state parte del modello d’istruzione: basti pensare al diffondersi delle arti liberali – le cosiddette liberal arts del mondo anglosassone – che nascevano proprio dall’esigenza di rispondere alle grandi sfide di quel tempo quali i diritti umani, le libertà individuali e la soppressione degli antichi regimi. Così le arti liberali divennero la base della modernità e della crescita culturale del tempo.

Oggi la sfida esistenziale della nostra epoca è la sostenibilità, ossia salvaguardare la vita umana su questo pianeta. E questa è anche la sfida che si pone innanzi alle nuove generazioni. Quali potrebbero essere, quindi, le ricadute sull’istruzione e sul modello di insegnamento a scuola? Bisognerebbe partire dall’educazione alla sostenibilità per rimettere mano al mondo della scuola e al nostro modello educativo, pezzetto per pezzetto.  

E questo cosa comporta concretamente?

Ho sempre sostenuto che la sostenibilità dovesse diventare un argomento trasversale tra le materie; ma per fare ciò dobbiamo introdurre un approccio transdisciplinare a scuola. Per esempio, oggi insegniamo ancora la storia come una successione di date, ma è ovvio che così non si insegna a comprendere quei fenomeni sottostanti che hanno dato vita a una certa società invece che a un’altra: come si può altrimenti comprendere perché la Francia si è sviluppata in modo diverso dalla Germania, o perché alcune civiltà del passato sono scomparse e altre no? Improvvisamente smettiamo di studiare gli antichi Egizi come se la loro civiltà fosse semplicemente scomparsa. Manca un approfondimento sull’importanza storica dell’interazione tra società e territorio; così gli studenti non capiscono che le società si sviluppano in un certo modo anche a causa delle condizioni ambientali che le caratterizzano.

Questa è la storia come la studiano i grandi storici innovatori ed è molto diversa dall’approccio nozionistico che troviamo a scuola. Persino materie come la letteratura si possono comprendere meglio in base alle interazioni tra culture territoriali e ambiente. Invece si studia la poesia di Leopardi senza associarlo alla sua geografia di riferimento; ma come si può comprendere il perché del colle leopardiano, se non si comprendono le caratteristiche geomorfologiche delle Marche?

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Lei è anche un economista specializzato in economia del benessere. Qual è il ruolo dell’educazione nel benessere e nella qualità della vita?

Più del petrolio, dell’oro o del denaro, la vera ricchezza di un Paese è il suo capitale umano. La visione che un Paese si possa arricchire anche con una popolazione ignorante è piuttosto antiquata. Non a caso le economie che prosperano non sono le economie che hanno materie prime, ma quelle con materia grigia.

Per l’economia del benessere, l’investimento nella scuola, nell’istruzione e nella ricerca è l’investimento per eccellenza. Seguendo questa logica, si ricalcola la ricchezza attraverso una misurazione di quanto la popolazione è colta e capace di innovazione: questo dovrebbe essere il nuovo PIL, non quello che misura ogni giorno quante macchine produco e che è una misurazione del passato che non dice nulla sulla vera ricchezza di una popolazione. È chiaro che l’economia oggi è un’economia della conoscenza e dell’innovazione – anche se l’Italia sta andando nella direzione opposta.  

Il sistema educativo italiano divide gli alunni abbastanza presto in diversi percorsi, alcuni più basati sulla scienza, altri basati sull’istruzione classica, altri più professionali. Alcuni sostengono che questo tipo di differenziazione crei disuguaglianza. Altri sostengono che la crisi ecologica sta dimostrando che la separazione tra “scienze esatte” e “scienze umane” è artificiale e mina la nostra capacità di comprendere il mondo per com’è veramente. Cosa ne pensa?

Sono favorevole ai filoni educativi; non credo serva una scuola generica fino alla fine. Ciò che è importante è che la qualità delle scuole debba essere tale da fornire delle competenze professionalizzanti, di carattere sociale e scientifico, che consentano agli studenti di gareggiare con le tecnologie per comprendere come funziona il mondo.  Per questo c’è bisogno di un approccio trasversale tra le scuole. Non abbiamo bisogno di puri intellettuali né di puri operatori; abbiamo bisogno di intellettuali che sappiano utilizzare le mani e di operatori che sappiano usare il cervello.

I figli delle famiglie più abbienti di Milano e Roma fanno il Liceo Classico. Credo che sia profondamente sbagliato prendere studenti di quattordici anni e fargli fare una scuola classica pensando che sia la scelta migliore: al momento il Liceo non ti dà quelle competenze che oggi servono sempre di più nello studio di certe materie. Oggi studiare i classici senza avere delle competenze tecnologiche significa fare un lavoro che non serve più a nessuno. Basti pensare che uno degli ambiti dove c’è più crescita è la linguistica computativa, ossia la computational linguistics, che vuol dire studiare le lingue, studiare la letteratura e studiare la produzione culturale attraverso l’uso del computer. E lo stesso vale per le scuole tecnologiche, dove se non si comprendono le dinamiche sociali, umane e scientifiche che stanno dietro l’uso delle tecnologie, creiamo un esercito di meri esecutori.

C’è uno stigma legato al perseguire una formazione professionale rispetto a quella umanistica?

Il problema è che spesso i genitori scelgono di mandare il figlio o la figlia nella scuola dove ci sono gli studenti provenienti da famiglie più abbienti. Non è una scelta basata sulla qualità dell’insegnamento, ma piuttosto  dalla consapevolezza che, in buona parte, il futuro dei propri figli sarà determinato dalle relazioni sociali che riusciranno a costruire con i compagni, magari figli di notai, farmacisti e avvocati. Una volta si facevano i matrimoni combinati tra i regnanti, oggi si fanno i matrimoni combinati tra borghesi.

Ipoteticamente parlando, se tutti i ricchi decidessero di mandare i figli in scuole pessime, l’effetto sarebbe comunque lo stesso. Se fossimo in grado di scegliere alla cieca – un po’ come direbbe John Rawls, attraverso un velo di ignoranza, come in una sorta di lotteria -, forse avremmo la possibilità di rilanciare certi settori scolastici.

La nostra società non ha bisogno di puri intellettuali o puri tecnici.

L’Italia soffre da decenni di uno dei tassi di disoccupazione giovanile più alti d’Europa. Cosa deve cambiare affinché l’istruzione affronti questa sfida?

Per risolvere la disoccupazione giovanile, c’è bisogno di fare in modo che i giovani diventino nuovi imprenditori: in Italia c’è una cultura di persone che difficilmente si buttano nell’innovazione e nel mondo dell’impresa. Basti pensare che ancora si considera una carriera di successo quella da lavoratore dipendente. Oggi c’è bisogno di coltivare una cultura dell’imprenditorialità: abbiamo bisogno di incubatori di start-up a ogni angolo, ma anche di opportunità di finanziamento e di formazione per coloro che vogliono provare a creare le imprese del futuro.

Queste opportunità sono l’unico modo per generare quel livello di innovazione nell’economia che poi produce posti di lavoro, soprattutto tra i giovani. In un’Italia in cui il tessuto imprenditoriale dominante è quello delle piccole e medie imprese, in buona parte familiari e gestite per lo più da ultrasessantenni, difficilmente si assume su base meritocratica. Un’azienda guidata da un giovane è, invece, un’azienda che assume altri giovani. Per questo abbiamo bisogno di coltivare una coscienza imprenditoriale che oggi non si forma da nessuna parte, tantomeno a scuola o all’università.

Negli ultimi anni, sono stati introdotti schemi di “alternanza scuola-lavoro” su modello dell’insegnamento “professionalizzante” tedesco. Ma ci sono stati abusi da parte di aziende che, nei casi peggiori, hanno anche portato alla morte di adolescenti durante gli stage. Come si può intervenire?

Non credo che l’alternanza scuola-lavoro debba essere eliminata come concetto, ma andrebbe piuttosto promosso un rapporto paritetico tra mondo della scuola e delle imprese. Ma finché avremo un territorio con situazioni molto disomogenee tra loro, la situazione rimarrà problematica. Abbiamo tante regioni nel nostro Paese dove le imprese non ci sono o sono distanti dagli istituti scolastici; qui gli studenti sono spesso costretti a lunghi tragitti per raggiungere le aziende o si accontentano di realtà più vicine ma inadatte allo scopo. Al contrario, ci sono territori in cui un’ampia presenza di centri di innovazione internazionali permette agli studenti di fare un vero percorso formativo. Se non facciamo in modo che tutti abbiano le stesse opportunità, ogni realtà sarà dipendente dalle condizioni del territorio; avremo studenti che vanno a lavorare da Google e studenti che vanno a fare i muratori o i manovali sotto casa, e magari ci rimettono anche la vita.

Come in molti paesi europei, l’accesso a un’istruzione di qualità in Italia varia geograficamente, all’interno del paese così come all’interno delle città e delle regioni. Cosa si può fare?

I problemi socioeconomici del nostro Paese derivano anche dal fatto che esiste uno stigma legato a certi territori, il quale poi si ripercuote sulle strutture scolastiche. Avremo sempre questa segregazione finché continuiamo ad avere dei quartieri-dormitorio nelle nostre città: luoghi dove la gente dorme, ma non vive. I figli verranno mandati in scuole lontane perché la scuola sotto casa, quando c’è, è di pessima qualità – ed è anche così che i borghi senza scuole si sono spopolati. L’unico modo per combattere la dispersione scolastica è avere delle scuole di prossimità in ogni quartiere. Scuole equipaggiate con tutti gli strumenti per elevare la qualità dell’insegnamento nel territorio: la scuola sotto casa deve dare le stesse identiche possibilità di una scuola nel centro di Milano.

L’obiettivo del governo non dovrebbe essere avere dei picchi di eccellenza, ma una buona qualità diffusa. Pensiamo che il vanto dell’Italia siano quelle poche scuole che sono le migliori al mondo, ma dovrebbe essere avere il 90% delle scuole moderatamente buone.

L’obiettivo del governo non dovrebbe essere avere dei picchi di eccellenza, ma una buona qualità diffusa.

L’Italia ha ricevuto la tranche più grande del Recovery Fund dell’UE e uno degli obiettivi della sua spesa sarà quello di potenziare l’innovazione italiana. Qual è la sua opinione sui piani di spesa per l’istruzione e la ricerca?

Le risorse messe a disposizione da Next Generation sono ottime ma, come spesso accade con i finanziamenti europei, vanno a sostenere le strutture di formazione e di ricerca piuttosto che le persone. Così continuiamo ad avere un Paese in cui abbiamo troppi pochi ricercatori e troppi insegnanti precari sottopagati.

Se anche arriva questa pioggia di miliardi, dobbiamo fare i conti con il fatto che sono fondi che vanno alle strutture, non alle persone. E se in parallelo non investiamo sulle persone, avremo magari scuole riverniciate e pulite, ma piene di insegnanti precari e sottopagati.

In Italia accade poi spesso che i fondi europei siano usati come sostitutivi ai fondi italiani, ma dovrebbe essere il contrario; se i fondi europei coprono i costi dei laboratori, lo Stato italiano dovrebbe trovare i fondi per riempirli con i ricercatori.

L’UE non ha tradizionalmente quasi nessuna competenza nell’ambito dell’istruzione, che rimane una prerogativa ancora largamente nazionale, se non in alcuni casi addirittura locale. Lei vedrebbe positivamente una maggiore integrazione dei sistemi educativi Europei? E in quale ambito?

Poiché vorrei una scuola sempre più localizzata, sono favorevole al concetto di autonomia scolastica. Per esempio, mi piacciono anche le scuole gestite in collaborazione con i genitori, anche attraverso iniziative parentali. Credo che in passato, se non avessimo avuto l’autonomia scolastica, non avremmo avuto il “Modello Reggio”, Maria Montessori o la Scuola di Barbiana – avremmo avuto solo la scuola fascista del periodo tra le due guerre.

Oggi abbiamo bisogno di scuole integrate tra di loro attraverso il modello della rete, non della piramide: scuole che hanno il massimo grado di autonomia, ma in continua collaborazione tra di loro. Personalmente apprezzo molto un modello di insegnamento in cui nella scuola di paese, per esempio nella Comunità montana della Basilicata o del Molise, gli studenti facciano lezione con l’insegnante madrelingua che sta in Inghilterra. Tutto questo, garantendo però i livelli essenziali delle prestazioni. In altre parole, parametri internazionali – con misurazione di finanziamenti e prestazioni a livello europeo – e una gestione locale che lasci scegliere a ogni scuola e regione le modalità per raggiungere tali obiettivi: così avremo scuole più autonome e divertenti, ma che tendono tutte verso un obiettivo comune.

Sia per la Chiesa che per lo Stato-nazione, storicamente l’istruzione pubblica è stata un mezzo per costruire un’identità comune e un senso di appartenenza. Negli ultimi anni questo ruolo sembra essere sfumato anche a causa di società più fluide e sfaccettate. Crede che l’obiettivo di costruire una cittadinanza ecologica possa fornire significato e direzione all’educazione nel 21° secolo?

Assolutamente sì. La generazione che oggi ha meno di vent’anni riscriverà le regole del gioco; un po’ come dopo la guerra, quando nacque la Repubblica e venne scritta la Costituzione per costruire l’Italia repubblicana e democratica di oggi. Come allora, siamo a una svolta storica. Non abbiamo bisogno delle contrade o di tornare al Medioevo per sentirci identitari. È l’educazione ad avere un ruolo essenziale nel creare un’identità sulla base di quello che dobbiamo costruire. La scuola oggi potrebbe generare questa nuova cittadinanza sostenibile, formando la generazione di nuovi padri costituenti che riscriveranno la nostra Costituzione, le nostre leggi, le nostre regole – e che forse creeranno un’Italia diversa.