New York City, Milano, Tokyo, Barcellona, Parigi. Le principali metropoli d’Europa e del mondo sono state tra le prime a essere colpite dalla pandemia, riportando fin da subito livelli di contagi in rapida crescita. Per le peculiarità proprie dei moderni centri urbani, le città hanno rappresentato il terreno ideale per la propagazione del virus: al di là del rischio intrinseco all’elevata densità urbana, si ipotizza che la cronicità dei più alti livelli di inquinamento atmosferico e gli ingenti flussi di persone in entrata e uscita abbiano fatto sì che i principali crocevia internazionali fossero tra i primi focolai della pandemia.

L’elevata incidenza di casi di COVID-19 nei centri urbani ha cambiato drasticamente la narrativa collettiva sulle grandi città: da organi vitali della società moderna, a sovraffollati lazzaretti di cemento e smog. Quando l’incantesimo si è sciolto, le grandi metropoli hanno iniziato a svuotarsi.

Se da una parte gli andamenti migratori tra zone rurali e urbane si sono invertiti portando al fenomeno dell’esodo urbano in tutto il mondo, dall’altra il constante afflusso di turisti verso le principali destinazioni urbane ha avuto un’improvvisa battuta d’arresto. Un po’ per le nuove normative sulla mobilità nazionale ed europea, un po’ per il rischio di contagio, i flussi turistici nazionali e internazionali si sono allontanati sempre di più dalle comuni mete urbane europee.

Il risultato è che le ultime statistiche che monitorano la performance dei settori legati all’industria del turismo in grandi città come Barcellona, Praga, Amsterdam o Roma, hanno dipinto il quadro allarmante di un settore in crisi che minaccia di portare con sé la stabilità delle maggiori economie urbane europee. Secondo gli ultimi rapporti dell’istituto nazionale di statistica italiana (ISTAT), l’Italia, che è tra le prime destinazioni in Europa e al mondo per turismo, ha perso più di 81 milioni di visitatori nel 2020. A marzo, il flusso di turisti in città come Firenze, Roma o Venezia si è praticamente azzerato. Considerando il peso delle economie urbane sul prodotto interno lordo dei rispettivi paesi, i potenziali effetti sull’economia nazionale ed europea sono disastrosi.

Nel frattempo, la pandemia ha rappresentato il perfetto banco di prova per testare l’adeguatezza delle nostre città a rispondere alle incognite della crisi climatica: un test che i centri urbani hanno fallito su più fronti. Così le moderne metropoli, assediate da una pandemia globale, rese sterili da anni di politiche di sfruttamento volte all’incentivazione del turismo di massa e minacciate da una crisi dell’industria del turismo senza precedenti, sono costrette a mettere in discussione la ratio alla base della loro urbanistica.

La fagocitosi dei centri urbani invasi dai turisti

Nel 1851, quando l’imprenditore inglese Thomas Cook, fondatore della ‘Thomas Cook and Son’, organizzò il viaggio di 150.000 persone per la Grande Esposizione di Londra, diede vita al più grande tour organizzato nella storia moderna. In un periodo in cui il potere d’acquisto e lo sviluppo del settore dei trasporti erano in ascesa, il modello di grand tour promosso da Thomas Cook attecchì senza fatica nella società dell’epoca, portandolo a replicare il paradigma con grande successo anche all’estero.

Erano le origini del fenomeno oggi meglio conosciuto come turismo di massa.

Da allora, sono cambiate molte cose: mentre il colosso della storica agenzia di viaggi di Thomas Cook è fallito per bancarotta nel settembre del 2019, il modello di turismo che ne aveva segnato l’ascesa è passato dall’essere simbolo di prosperità e crescita del secolo che lo ospitava a emanazione di un’industria capitalistica dello sfruttamento intensivo e del liberalismo più selvaggio.

Nel 2016, in un reportage sul boom di visitatori in Islanda, la società di media Skift parla di overtourism come del lato oscuro della democratizzazione del turismo: ora che il mercato e la modernità hanno permesso di spostarci da una parte all’altra del mondo in tempi record, con il massimo della comodità e a un prezzo ragionevole, viaggiare non è più un lusso; ma i sistemi d’accoglienza delle principali mete turistiche del mondo sono pronte a ricevere numeri sempre più crescenti di turisti? E quali sono i potenziali impatti sull’economia e sull’equilibrio dell’ecosistema di questi luoghi?

L’industria del turismo ha una profonda capacità di trasformazione sulle intelaiature della città e delle sue dinamiche socioeconomiche. Basti pensare alle dimensioni dell’intera filiera commerciale che gravita attorno all’accoglienza, il pernottamento, la ristorazione, l’intrattenimento, il trasporto e lo shopping per turisti. Le ondate di visitatori che ogni anno occupano le metropoli, in Italia come in Europa, hanno modificato le morfologie di molti centri urbani, portandoli a mercificare la preservazione del territorio e dei suoi residenti in cambio di un’affluenza turistica potenziata.

Ma un maggiore afflusso di turisti vuole spesso dire sovraffollamento, aumento nei consumi e problemi di gestione. Il turismo di massa esercita una pressione costante sulle limitate risorse, infrastrutture e servizi della città: dallo smaltimento dei rifiuti al consumo d’acqua e d’energia. Le difficoltà aumentano quando l’enorme affluenza di turisti si concentra quasi esclusivamente nei luoghi più iconici e conosciuti della metropoli.  

Stare al passo con i trend di un turismo sempre più consumistico e vorace ha fatto sì che il paradigma del turismo a breve termine su cui molte città, soprattutto europee, si sono adagiate abbia definito l’andamento dello sviluppo urbano degli ultimi decenni.

Paola Minoia, geografa e professoressa associata all’Università di Torino e Helsinki, mi ha raccontato come la Venezia di oggi sia il prodotto della liberalizzazione di fine anni ’90 e inizio anni 2000: quando un’inversione di rotta sul piano politico e amministrativo rimosse i limiti sul commercio e sul massimale di 11 mila posti letto per turisti, l’eccesiva proliferazione di strutture alberghiere ed esercizi commerciali per turisti andò a discapito dei residenti.

Così Venezia si è riempita di “negozi di paccottiglia varia e maschere di Carnevale prodotte chissà dove” e alberghi e appartamenti monouso di privati asserviti alla speculazione turistica. Poi sono arrivate anche le grandi navi, che hanno peggiorato l’impatto ambientale della mobilità turistica: “Le grandi navi sono l’apoteosi del turismo insostenibile a Venezia; hanno accelerato fenomeni come il moto ondoso e la mareizzazione della laguna.” continua Paola Minoia. “Il moto ondoso causato da lancioni e navi da crociera ha causato problemi di erosione sulle rive, con conseguente consumo di suolo e instabilità per le fondamenta di ponti ed edifici, che ora rischiano il collasso; la mareizzazione invece porta squilibri al delicato eco-sistema lagunare, mangiando terra e introducendo specie aliene”.

A Roma, la commercializzazione dello spazio urbano, volta a favorire un turismo logorante e di bassa qualità ha fatto sì che persino i piani di rigenerazione urbana venissero dirottati a scopo lucrativo e di promozione turistica, lasciando la città con enormi problemi di spazio ed edifici “rigenerati” estorti alle realtà di quartiere. Dopo essere stati consegnati ad aziende di marketing, eventi e ristorazione, le borgate “da rigenerare”, invece che essere restituite ai propri abitanti, sono diventate zone di consumo di un tipo d’intrattenimento e cultura esclusivi che producono beni immateriali da rivendere nel mercato del turismo romano.

Così il turismo di massa modifica lo spazio, la demografia e il mercato del lavoro del sistema urbano per renderlo a sua immagine e somiglianza. Comincia con i centri storici che, sulla scia dell’aumento della domanda da parte dei turisti, si svuotano dei loro abitanti, esodati da un mercato immobiliare e affittuario ormai fuori portata, per lasciare spazio a lussuosi appartamenti che vendono l’artificialità del quotidiano per carissime tariffe a notte. Il fenomeno, spesso riferito come ‘fenomeno Airbnb’, ci racconta del disastro dei centri storici minacciati dalla capitalizzazione di un mercato immobiliare e affittuario sregolato.

A Venezia, come a Roma o Firenze, anche la cultura locale si è mercificata per amore del turismo, perdendo così ogni traccia di autenticità al fine di costruire una tipicità fabbricata che danneggia la sostenibilità del sistema urbano. Il quartiere di Trastevere a Roma, uno dei simboli dell’antica capitale, ha perso la sua identità e popolazione a causa della speculazione sugli affitti e della chiusura di botteghe artigianali ed esercizi locali.

I quartieri ‘turistificati’ sembrano tutti uguali in qualsiasi città d’Italia: creano l’illusione di vivere la cultura locale, ma la realtà è che immergono il consumatore in riproduzioni artificiali, specchi distorti della cultura di massa.

Il respiro delle città e il crollo dell’economia

Forte di un patrimonio storico e artistico immutabile e dal grande valore commerciale, l’economia italiana ha da tempo cercato il suo oro nero nell’enorme afflusso di turisti che ogni anno riempiono le strade e i musei d’Italia. Un settore, quello del turismo, che si pensava una garanzia anche in tempi di crisi. Ma in mancanza di una cauta politica economica della diversificazione, l’economia italiana si è trovata impreparata di fronte al crollo del turismo.

La promessa di un potenziale lucrativo immediato e ad alta rendita ha direzionato gli investimenti di molte regioni e città verso il turismo urbano di massa. Seppur estremamente redditizi a breve termine, gli investimenti sull’attuale modello di turismo innescano devastazioni socioeconomiche a lunga scadenza. Così gli ingenti flussi di denaro che ingrassano le filiere turistiche italiane hanno stretto ancora di più la presa su un’economia nazionale sofferente e sviluppata a singhiozzo, lasciando in eredità una costosa riparazione dei danni.  

Poiché le principali città d’arte italiane sono particolarmente internazionalizzate, nel 2020 i fiori all’occhiello del turismo urbano dovranno fare i conti con le turbolenze economiche e sociali che una decrescita di più del 60% nel flusso di turisti stranieri comporta. Il funzionamento del sistema economico di molti centri urbani ha riprodotto in scala municipale lo stesso rapporto di dipendenza che l’economia nazionale ha nei confronti del turismo di massa: ora che la pandemia ha lasciato le più visitate città italiane vuote, gli organismi urbani collassano per astinenza.  

Mentre il colosso di Airbnb mostra già segni di ripresa dopo lo shock della pandemia, il settore turistico urbano che vi gravitava intorno fatica a rialzarsi. In tutti i centri storici precedentemente conquistati da Airbnb, i quartieri turistificati sono rimasti deserti durante tutta la pandemia. Anche dopo la riapertura, sono pochi i segni di vita: tra i molti cartelli di vendita e chiusura, le saracinesche di tanti negozi rimangono abbassate.

In mancanza dell’usuale flusso turistico, i proprietari di alloggi e stanze che prima della pandemia accettavano solo prenotazioni a breve termine, si sono ora spostati nel mercato degli affitti a lungo termine. A Roma, tra gli appartamenti su Airbnb e gli spazi collettivi precedentemente privatizzati per scopi turistici, sono tanti i buchi neri che si contano nella planimetria della capitale.

Ma se gli effetti della dipendenza si fanno sentire sulla stabilità dell’economia urbana, lo stop ai flussi turistici ha portato sollievo ai centri cittadini soffocati dall’inquinamento sociale e ambientale.

Secondo Paola Minoia, la presenza delle grandi navi a Venezia è aumentata sempre di più negli anni, fino a raggiungere i picchi dell’anno scorso; ma durante la pandemia, i loro attraversamenti hanno improvvisamente cessato di intasare il Canal Grande, permettendo la straordinaria ripresa dell’eco-sistema lagunare. Con il calo nei mezzi di trasporto turistici come i taxi-boat e nel traffico di barche, le acque dei canali si sono schiarite, lasciando intravedere la ricca biodiversità dei fondali.

E Venezia non è la sola. Studi recenti sulla qualità dell’aria e dell’acqua in varie città d’Italia mostrano come il lockdown abbia diminuito il livello di inquinamento prodotto dal turismo: con 30 milioni di turisti in meno solo a Roma, anche la riduzione nella formazione di acque nere ha dato sollievo al già compromesso ecosistema marittimo laziale.

Dopo la pandemia, un nuovo volto per il turismo urbano

Mentre gli albori dell’era post-pandemica faticano a emergere tra il moltiplicarsi dei contagi nei grandi centri urbani europei, l’unica certezza è la sensazione che il futuro della società moderna sarà definito dalle scelte politiche dei prossimi anni.

Il dilemma al cuore della ridefinizione del funzionamento dei centri urbani è che le città sono diventate gusci vuoti: mentre il turismo urbano di massa sembra non adeguarsi bene alle esigenze di un mondo trincerato da pandemie globali, molti centri urbani – le cui intelaiature si sono calcificate intorno alle esigenze del turismo di massa più sfrenato – si sono resi inospitali alla vita locale.

In un periodo di grave crisi economica, il rischio è che l’Italia possa continuare a puntare su una politica miope dell’immediato profitto che mette al centro del suo malfunzionamento il modello fallace di economia del turismo degli ultimi anni. Eppure, la pandemia e la crisi esistenziale che hanno colpito i centri urbani d’Italia e d’Europa possono fornire l’opportunità di ridefinire un nuovo paradigma per il turismo urbano, eliminandone le criticità e promuovendo un’industria turistica più equa e sostenibile.

Ma equità e sostenibilità potranno mai riconciliarsi con i numeri della mobilità di massa? È possibile, secondo quanto affermato dai sindaci di alcune delle città più visitate d’Europa in occasione di una serie di interviste al The Guardian. Secondo Xavier Marcé, assessore al turismo di Barcellona, il problema non è tanto nella quantità di turisti in arrivo, quanto invece nella loro distribuzione: una ripartizione più regolare tra siti e periodi stagionali ha il vantaggio di facilitare la gestione dei flussi turistici.

Anche se ri-direzionare l’interesse del pubblico non è facile, la decentralizzazione delle mete turistiche permetterebbe anche alle località più marginalizzate di beneficiare della crescita economica portata dal turismo. Eppure, secondo il recente rapporto OCSE sulle tendenze e politiche del turismo 2020, senza adeguate normative che prevengano le criticità del turismo urbano, il processo di distribuzione dei visitatori porterebbe solo a un trasferimento del problema.

In Europa, importanti destinazioni turistiche come Amsterdam, Barcellona e Parigi già prima della pandemia avevano definito politiche e strategie di contenimento per migliorare la sostenibilità del turismo. Per risolvere problemi come la gentrificazione, l’inquinamento ambientale e il sovraffollamento, le municipalità hanno stilato politiche di regolamentazione abitativa e piani di gestione dell’assetto territoriale per l’accoglienza e il pernottamento dei turisti, nel tentativo di domare le più recenti forme di speculazione turistica.

La questione più pressante per molte municipalità rimane quella di ripopolare i propri centri storici e stabilire nuove regole di convivenza tra residenti e turisti. Per Paola Minoia la municipalità dovrebbe porre dei limiti alla dominazione turistica, ricorrendo anche a numeri chiusi se necessario. “Dopo tanta bulimia di turismo e consumo, questo periodo dà tregua a persone e ambiente; il modello di turismo urbano che avevamo prima era un consumo di suolo e città che, di per sé, non si può neanche chiamare turismo. Ora c’è bisogno di una difesa della residenzialità”. Dopo la pandemia, a Venezia si spera che gli alloggi sfitti e gli edifici vuoti vengano ridistribuiti tra residenti, studenti universitari fuori-sede, imprese sociali ed edilizia popolare.

Ma è chiaro a tutti che senza i giusti incentivi governativi e un’adeguata regolamentazione, così come un piano per recuperare l’eco-sistema di quartieri e centri storici, i cuori delle città continueranno a rimanere in balia delle masse di turisti o, nel peggiore dei casi, deserti. “Non basta trovare le case e restituirle ai residenti, bisogna anche rendere la città di nuovo vivibile: recuperare i negozi di vicinato, gli spazi per l’artigianato e per la cultura”, afferma Paola Minoia.

“Venezia ha una storia legata a un tipo di artigianato che si sta perdendo; le condizioni che si sono create a seguito della pandemia potrebbero offrire l’occasione di recuperarne le tradizioni mentre si promuove nuovi tipi di inserimento professionale, soprattutto tra i giovani, dove c’è molta volontà di dare nuova vita a questi mestieri”. I benefici della ricostruzione del tessuto sociale sono anche quelli di combattere la monocultura del turismo e favorire una maggiore diversificazione dell’economia urbana, cosicché una crisi sociale come quella innescata dal COVID-19 non si ripeta.  

La chiave per un turismo sostenibile resta però in mano a capricci e umori della volontà politica. Mentre le città si svuotavano, il dibattito politico italiano si è preoccupato di recuperare i turisti nel più breve tempo possibile, concentrando la discussione su come incentivare il turismo nazionale e rendere nuovamente sicuri e attrattivi i centri urbani. In una conferenza stampa del 25 settembre 2020, il ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini ha dichiarato che parte dei fondi del Recovery Fund europeo verranno investiti in progetti finalizzati a “ricostruire un turismo di grandi numeri”: segno che le esigenze economiche dettate dalla crisi sembrano ancora una volta definire le priorità della politica.

“A Venezia l’inquinamento delle acque non è mai stato studiato ufficialmente” spiega la Dottoressa Minoia. “Le ragioni sono fondamentalmente politiche e nascono da interessi trasversali”. In mancanza di una volontà governativa al cambiamento, associazionismo e movimenti locali hanno rappresentato quelle sacche di resistenza necessarie a riaccendere il dibattito sul turismo urbano. “Il conflitto di interessi è diventato evidente quando il Comune di Venezia ha recentemente approvato dei cambi d’uso di edifici da residenziali a turistici, mostrando di non avere a cuore la tenuta del tessuto residenziale; in questo senso, movimenti sociali come il Comitato ‘No Grandi Navi’ sono stati l’unica opposizione visibile”.

Se molte decisioni si realizzano nel dibattito tra il sociale e la politica, anche industrie, startup e consumatori hanno le loro responsabilità. In questa delicata fase in cui si discute su come ridefinire in maniera più sostenibile il turismo urbano, la difficoltà è anche quella di non cadere nella trappola del green-washing. Prima della pandemia, molte iniziative che sono finite sotto l’ombrello del turismo sostenibile si sono scoperte di dubbia etica o difficile applicabilità. Basti pensare che c’era un tempo in cui anche Airbnb si professava come l’alternativa green all’industria del turismo. Oggi, sulla scia della rinnovata sensibilità nata in seno al moderno movimento green, alcuni imprenditori si autocelebrano per aver barrato la casella dell’environment-friendly e dell’economia solidale, ma propongono spesso soluzioni abbozzate che saturano il mercato e confondono il consumatore.

Nella proliferazione di iniziative figlie del consumismo ecologico, ci sono però approcci più o meno innovativi che si affacciano timidamente nel mercato del turismo urbano. In contraddizione all’impronta venale di Airbnb, la visione comunitaria promossa dal più recente modello di Fairbnb.coop suggerisce che non tutto ciò che appartiene al mercato del turismo pre-pandemico è automaticamente da cestinare. Devolvendo il 50% dei profitti a progetti locali, l’intento della piattaforma è quello di permettere una ridistribuzione più equa e capillare dei benefici di un’economia turistica: un’idea che, seppur limitata dall’essere un mero tamponamento del problema, può rappresentare una valida alternativa se affiancata dalle giuste politiche governative di contenimento agli eccessi dell’over-tourism.

Ma fenomeni come il green-washing aziendale, lo svuotamento dei centri storici, la mercificazione della cultura e la commercializzazione delle collettività dello spazio urbano sono solo alcuni dei sintomi di un modello globale di turismo cannibale che fa acqua da tutte le parti. Quando alla base di un paradigma di produzione e consumo c’è la mercificazione, l’iper-consumismo e la speculazione, questioni come la preservazione dell’eco-sistema locale in termini sociali e ambientali passano in secondo piano.  

Seppur avvertita come un’epoca buia per le città, questo periodo offre l’occasione di dare una svolta al dibattito sulla sostenibilità sociale e ambientale dell’urbanistica moderna. Con l’epoca post-pandemica e le sfide che la definiscono, i centri urbani attraversano un periodo di transizione cruciale che rappresenta un’opportunità per ridefinire i nuovi termini di sostenibilità e convivenza tra abitanti, turisti e ambiente all’interno dei grandi eco-sistemi urbani d’Europa.